L’UNDICESIMA BATTAGLIA DELL’ISONZO
L'UNDICESIMA BATTAGLIA (18 agosto - 12 settembre) ebbe per obiettivo la conquista l'altipiano della Bainsizza poichè costituiva per l’esercito nemico un’ottima base di partenza per le proprie offensive e rappresentava anche la naturale copertura del Vallone di Chiapovano, utilizzato dagli austriaci per il sicuro spostamento di uomini e di mezzi tra il Carso e la Conca di Tolmino. L'offensiva si sviluppò anche sul Carso, e fu coadiuvata dal mare da monitori[1] e batterie natanti della marina. A prezzo di gravi sacrifici, le truppe italiane forzarono l'Isonzo in più punti e progredirono così rapidamente sul margine occidentale dell'altipiano della Bainsizza da costringere il nemico a ripiegare su una linea più arretrata, lasciando in mani italiane lo Jenelik, il Kbilek, il Monte Santo, 20.000 prigionieri, come pure enormi quantità di armi. Le perdite complessive in questa grande battaglia ammontarono a 143.000 italiani e 110.000 austriaci tra morti, feriti e dispersi. Dopo questa battaglia l'esercito austro - ungarico era ridotto in condizioni tali da non poter sostenere un altro attacco italiano[2].
Alla fine dell’undicesima battaglia dell’Isonzo i soldati italiani erano arrivati allo stremo delle forze e della capacità di sopportazione: lo sforzo bellico sostenuto dall’esercito era stato immane. Il potenziale bellico dell’Austria- Ungheria era stato messo così a dura prova che l’alto comando imperiale, consapevole di non poter reggere un’ulteriore spallata italiana sull’Isonzo, si decise a chiedere aiuto all’alleato tedesco per organizzare insieme un’offensiva contro l'ala nord della 2° Armata italiana (DODICESIMA BATTAGLIA DELL'ISONZO) per migliorare le proprie posizioni su quel fronte.
Nella seconda decade di settembre cominciarono a diffondersi, sia tra le truppe che fra la popolazione, delle voci riguardo ad una prossima e certa azione nemica. Questo alimentò la paura ed un forte senso di malessere ma anche il forte desiderio che le ostilità cessassero presto.
Comparve un cartello fra Cividale e Caporetto con la seguente scritta A novembre affittasi agli austriaci[3].
Il 16 ottobre su Cividale ci furono cinque incursioni aeree che gettarono nel terrore la popolazione; pochi giorni dopo circolava la notizia, fra i civili, che la temuta offensiva fosse già iniziata sul tratto Tolmino – Gorizia.
LA DISFATTA DI CAPORETTO
Il 24 ottobre 1917 avvenne lo sfondamento austro – tedesco delle linee italiane fra Plezzo e Tolmino. Ci fu un intensissimo bombardamento dove vennero utilizzati nuovi ed aggressivi gas chimici. Le truppe austro – ungariche e tedesche andarono all’assalto. I reparti della II Armata del generale Capello riuscirono a fermare le truppe nemiche sul Rombon e sul Monte Nero, ma non nella conca di Plezzo dove erano stati lanciati i gas che avevano asfissiato i soldati italiani.
I reparti tedeschi superarono le linee italiane davanti a Tolmino, risalendo per la valle il corso dell’Isonzo per potersi congiungere ai reparti provenienti da Plezzo.
L’esercito nemico era numericamente superiore ed attuava con efficacia la tattica dell’infiltrazione. A causa di questo il reparti delle truppe italiane andarono in crisi; essi non erano abituati alla guerra di manovra e non erano stati comandati in modo efficace.
La notizia che il fronte si era spaccato fra Plezzo e Tolmino raggiunse in modo “confuso” i centri della provincia, nei quali risiedevano i componenti del Comando Supremo fra i quali Cividale del Friuli.
Il giorno seguente, il 25 ottobre, le difese italiane a sinistra dell’Isonzo cedettero, e le truppe austriache e tedesche superarono il fiume ed entrarono a Cividale che era la porta del Friuli. Fu, questa, una giornata caratterizzata da una notevole tensione; folle di soldati che arrivavano, la gente era terrorizzata e cercava una via di fuga. Nella sera, il Comando Supremo, aveva inviato nello scontro tutte le riserve della II Armata, ma con esito negativo. Cadorna dovette ordinare la ritirata verso il Tagliamento; durante il tragitto ci furono alcune aspre battaglie di retroguardia. Alcuni reparti dell’esercito italiano riuscirono a proteggere il ripiegamento della III Armata che, dal Carso, rientrava lungo le strade della Bassa.
Il ripiegamento dei reparti si trasformò in una ritirata caotica e molto disordinata: ai contingenti militari si mescolarono i civili in fuga e quei soldati che erano rimasti tagliati fuori dai reparti di appartenenza.
Tra i giorni del 27 e 28 ottobre vi fu un esodo di massa (fughe di cividalesi si erano avute anche durante le giornate precedenti). La popolazione fuggiva disperatamente, su camions, carri ed il tutto si svolse sotto ad una pioggia torrenziale.
LA BATTAGLIA DI CIVIDALE DEL 27 OTTOBRE 1917
Quella che viene definita come battaglia di Cividale è in realtà un insieme di scontri e manovre militari che i due eserciti, italiano ed austroungarico, misero in atto nella zona a nord e a est di Cividale, allo sbocco della vallata del Natisone sulla pianura friulana. Assieme alla battaglia di Codroipo può essere considerata la battaglia più importante della ritirata di Caporetto. Nei giorni seguenti il 24 ottobre, giorno della rotta di Caporetto, l’esercito Italiano si stava riorganizzando su posizioni più arretrate nel tentativo di contenere l’avanzata nemica e permettere al grosso dell’esercito di posizionarsi dietro il Tagliamento. Il comando militare aveva ordinato che alcuni reparti dell’esercito di posizionarsi sulle dorsali montuose che chiudevano la stretta di Ponte San Quirino-Azzida dislocandosi verso nord sulla linea che separa la valle del Natisone da quella di Torreano, sul monti Monte dei Bovi , Mladasena e Spignon (brigate Jonio e Avellino), mentre a sud, le truppe si erano attestate sui rilievi che separano il cividalese dalla vallata dello Judrio, vale a dire il monte di Purgessimo, Castelmonte (brigate Jonio, Avellino e Ferrara) ed il monte Spig verso Stregna (brigate Elba, Taro, Spezia, Milano e Puglie)[4]. Alle 3,50 del 27 ottobre il Comando Supremo, prima di abbandonare Udine, ordinò di dislocare in questi punti strategici quello che restava di queste brigate per rallentare l’avanzata nemica. Si era stabilito che ogni Corpo d’Armata dovesse lasciare 10 battaglioni sulla nuova linea difensiva che si stava formando, da Lusevera, Pujak, Le Zuffine, Joanaz, Mladasena, Purgessimo, Castelmonte, Korada, Sabotino, Salcano, Gorizia. Si trattava di una resistenza ad oltranza[5]. L’intento militare era quello di guadagnare tempo, di creare un linea di sosta, ovvero permettere alla II, alla III e ciò che rimaneva della IV armata di mettersi al riparo nelle retrovie friulane dietro il fiume Torre, dove sarebbero state posizionate le retroguardie lasciate sulla linea cividalese[6]. Diventando questa la nuova prima linea il resto dell’esercito si sarebbe ritirato dietro al fiume Tagliamento che in quei giorni si era ingrossato fuori di misura per le piogge caute in quei giorni[7] e che quindi poteva svolgere un’ottima funzione di barriera e difesa contro il nemico. In realtà divenne una linea di difesa oltranza. Le brigate pur in inferiorità numerica e male equipaggiate (non avevano cannoni ma solo mitragliatrici) e con poche munizioni riuscirono a fermare l’avanzata di cinque divisioni austroungariche per quasi tutta la giornata[8]. Sui vari settori della linea mancavano i rifornimenti. Cadorna aveva dato ordine che nella colonna di ripiegamento dietro ai carreggi e le salmerie ci fossero anche le munizioni. Questo comportò che quasi tutti i reparti sulla linea di ripiegamento rimasero senza questi rifornimenti, soprattutto le compagnie mitragliatrici[9]. Questo fatto condannò a esito negativo la resistenza ad oltranza dei soldati e forse fu uno degli errori commessi dal Comando Supremo durante la ritirata di Caporetto. La linea difensiva italiana non era stata organizzata con delle retroguardie, con una profondità tale da riuscire ad arginare il nemico in caso di perforazione della linea e questo fu l’altro motivo del facile sfondamento della linea cividalese da parte dell’esercito austroungarico. La ritirata era stata male organizzata e mal diretta e di conseguenza l’esito non poteva che essere negativo[10]. Le brigate impegnate nel contenimento dell’offensiva nemica erano soprattutto riserve; erano brigate a riposo in attesa di ricostituirsi dopo le perdite subite sull’altopiano della Bainsizza ed erano costituite per metà da rimpiazzi e complementi ed erano mancanti degli effettivi (gli unici che aveva maturato esperienza di combattimento) poiché quasi tutti in licenza. Si trattava di difendere ad oltranza, con soldati poco esperti e male equipaggiati e senza seconde linee, una fronte lunga 50 chilometri[11], quella che doveva essere la linea di sosta per bloccare momentaneamente il nemico per consentire all’esercito di riorganizzarsi dietro il fiume Torre divenne, come ebbe modo di esprimere Cadorna, una linea di difesa ad oltranza[12]:
Questa linea dev’essere difesa ad oltranza fino all’ultimo uomo. Cederla significherebbe aprir le porte all’invasione. Sopra di essa si deve vincere o morire[13].
L’offensiva austroungarica cominciò durante la notte tra il 26 ed il 27 ottobre. Il 26 gli italiani avevano abbandonato la stretta di Stupizza, lasciando dietro di loro incendi e devastazioni, su ordine del Comando, affinché il nemico non trovasse nulla di utilizzabile[14].
Alle ore 5,30 gli austroungarici sferrarono un attacco volto a conquistare il monte Joanaz, sopra Torreano, mentre altri reparti si diressero verso sud, lungo la dorsale che conduceva allo sbocco di Ponte San Quirino. Alle 8,30 il Monte dei Bovi era già in mano nemica mentre il Mladasena venne conquistato verso mezzogiorno[15]. Quasi contemporaneamente altri reparti avevano dato inizio all’attacco del monte di Purgessino, Castelmonte e monte Spig. I primi due, dopo una strenua resistenza italiana saranno conquistati solo nel primo pomeriggio[16]. Il giorno prima il 26 ottobre i reparti tedeschi avevano sfondato ad est del Matajur e si erano incuneati nella stretta di Luico (Livek) ed avevano conquistato il Kolovrat[17] . Attraverso Cepletischis e Savogna erano arrivati ad Azzida.
Gli austroungarici durante la notte riuscirono a conquistare S. Pietro e verso le due di notte, arrivati allo sbocco delle valle del Natisone, tentarono di prendere Azzida e dal monte di Purgessimo, dove nel frattempo si erano attestate le postazioni italiane si udivano fucilate e si videro spesso lampi di colpi nostri e del nemico[18].
Già alle 17,30 del giorno 26 c’era stato un primo attacco diretto verso il paese da parte di quelle divisioni provenienti di Luico. I soldati italiani circondati da due lati resistettero per tutta la mattinata seguente e stremati, verso le ore 14,00 dovettero ripiegare[19] dapprima verso il ponte di San Quirino, che preventivamente era già stato fatto saltare[20]. Qui non poterono resistere a lungo essendo bersagliati anche da quelle divisioni nemiche che nel frattempo si erano attestate sul monte dei Bovi e da dove, con i mortai, colpivano tutta la piana sottostante. Poi ripiegarono sul monte di Purgessimo dove si unirono alle altre brigate italiane[21]. Le stesse divisioni imperiali che li avevano sopraffatti ad Azzida diressero poi il proprio attacco verso Castelmonte e il monte di Purgessimo dove si trovavano i nostri. Salendo da san Leonardo dapprima raggiunsero il monte Cum, sopra Tribil, e poi avanzando lungo la dorsale si diressero verso Purgessimo. I nostri resistettero in queste postazioni fino alla sera del 27 ottobre quando dovettero ritirarsi. Da qui alcuni scesero verso Cividale e vennero fatti prigionieri; altri che intrapresero la via verso Prepotto riuscirono a precedere le truppe nemiche che scendevano lungo la vallata dello Judrio e riuscirono a mettersi in salvo in pianura verso Manzano. Nel pomeriggio il 14° reggimento Reserjaeger, era riuscito ad arrivare a Cividale e ad occuparla avendo i nostri lasciato libera la stretta di san Quirino. Durante la notte la città ducale era stata tenuta costantemente sotto il fuoco di bombardamento nemico. Il Comando di Cividale aveva dato incarico al giovane ufficiale del genio Francesco Giorgi di far saltare i binari della stazione ferroviaria e il ponte sul Natisone non appena il nemico fosse giunto in città, onde rallentare la sua l’avanzata; mentre ad altri ufficiali fu dato il compito di incendiare i depositi. Così che sia per i guasti ordinati dal nostro esercito sia per gli incendi causati dalle bombe nemiche, da lontano pareva che «tutta Cividale ardesse siccome un immane fornace». Gli imperiali, scesi verso Prestento, durante la notte precedente si erano già attestati sul monte dei Bovi e dalla mattina iniziarono a colpire con i bombardamenti anche il centro cittadino. Intanto i soldati italiani già dalla notte avevano cominciato a ritirarsi chi con il treno chi più tardi a piedi verso Udine. Verso le 10 del mattino gli ultimi addetti al comando di tappa lasciavano Cividale mentre, dalla vicina collina di Zuccola, gli italiani rispondevano al fuoco dei nemici appostati sul monte dei Bovi[22]. Alle 15,45 i primi soldati imperiali entrarono in città trovando solamente una piccola resistenza da parte dei soldati del genio che si apprestavano a far saltare il ponte sul Natisone. Pochi minuti dopo, venne fatto brillare. Cessarono le sparatorie ed iniziò il saccheggio di Cividale. I poveri abitanti nulla poterono di fronte alle soldataglie senza regole che oramai avevano invaso l’intero l’abitato. Dovettero assistere impotenti mentre i nemici si apprestavano a sfondare porte e finestre e rompere tutto ciò che capitava alla ricerca di preziosi o di qualcosa di utile e questo veniva fatto «con tale cozzo di colpi che pareva un nuovo terribile bombardamento»[23].
CIVIDALE DURANTE L’ANNO DELL’ OCCUPAZIONE
La ritirata del Piave fu compiuta da Cadorna in condizioni molto critiche a causa sia della viabilità discontinua sia di un esercito nemico incalzante e sia di strade sovraffollate da centinaia di migliaia di soldati mischiati ai civili in fuga. L’esercito italiano aveva perso circa 40.000 uomini tra decessi e feriti, 280.000 erano stati fatti prigionieri eb350.000 erano gli sbandati in fuga nelle retrovie.
Le forze armate italiane erano in ginocchio ed il Paese era stato invaso ed occupato dal nemico.
La conduzione del Regio esercito venne affidata ad Armando Diaz.
Dalla fine del mese di ottobre del 1917 la guerra si svelò ai friulani con il suo volto più drammatico. Arrivò un esercito di occupanti che parlava degli idiomi incomprensibili[24] ed il popolo cividalese, ma soprattutto friulano, dovette scegliere se partire o rimanere, affrontando di conseguenza una coesistenza con il nemico.
Su una popolazione complessiva di 630.000 abitanti (dati inerenti all’ultimo censimento effettuato nel 1911) i profughi del Friuli furono 135.000. Cividale contava 10.000 abitanti e partirono in 5177.
Firenze accolse ben 17.500 friulani fra i quali molti amministratori e notabili. Il ministero dell’interno designò Firenze come sede della prefettura di Udine e di conseguenza si stabilirono anche gli uffici del commissario della provincia, dei comuni, e di altri enti locali; intorno ad essi si ricomposero parecchi nuclei della burocrazia ed i circoli della classe dirigente politica. Essi organizzarono dei comitati, delle amministrazioni ed enti riconosciuti giuridicamente. Nel capoluogo toscano i più importanti notabili diventarono i referenti nazionali del popolo friulano. Essi costituirono amministrazioni ed enti riconosciuti giuridicamente, gestirono aiuti e soccorsi, sbrigarono documenti e pratiche nonché delle richieste di sussidio con un occhio di riguardo per i propri collegi elettorali, ovviamente non mancando di entrare in attrito con le amministrazioni imposte dal governo militare austro – tedesco.[25]
Al momento dell’invasione austro – tedesca i friulani si trovarono di fronte una situazione caotica: fuggire per la gente comune, non poteva essere facile, poiché sia le truppe in ritirata che quelle in avanzata, per sgomberare le vie di comunicazione, rovesciavano ai lati delle strade e nei fossati i carri e le masserizie dei civili intenti a scappare. In molti casi le fughe precipitose furono interrotte da un ordine dei militari, dall’affollamento delle strade o dalla rottura di un ponte. Lo spavento, la fatica e l’impossibilità di procedere furono le cause maggiori che obbligarono molti civili a ritornare nelle loro case, spesso dopo aver percorso strade terrificanti sotto la pioggia ed il freddo di quei giorni. Il numero delle famiglie intenzionate ad andarsene fu considerevolmente più consistente di quelle che concretamente riuscirono ad oltrepassare la linea. Un’altra amara verità fu che la gran parte della popolazione venne colta completamente alla sprovvista dall’avanzata e quindi non poté fare altro che assistere alla venuta dei nuovi occupatori. Diversamente, nelle zone rurali e della montagna, una grande maggioranza della popolazione contadina non volle abbandonare le rispettive abitazioni con le stalle attigue ed i loro appezzamenti terrieri, essendo queste le loro uniche risorse. In moltissimi casi, la radicata cultura contadina si ribellò alle imposizioni ed agli inviti delle autorità militari di abbandonare e molti, quando poterono, sfuggirono alle misure di sfollamento.
Di fronte alla fuga praticamente completa delle autorità locali, i referenti locali dell’autorità ecclesiastica, scelsero di rimanere con i loro parrocchiani che decisero di rimanere in Friuli. Il clero, perciò, venne sottoposto ad un durissimo banco di prova; chi aveva scelto di rimanere lo aveva fatto di propria sponte o “in coscienza”.
Lo “Stato personale del Clero” del 1914, ultimo documento ufficiale prima della rotta di Caporetto, indicava per l’Arcidiocesi di Udine con riferimento al solo clero diocesano, la seguente struttura: 678 sacerdoti, 27 Vicari Foranei e 232 parrocchie, vicarie e cappellanie indipendenti.[26]
Ne era Ordinario Sua Eminenza Monsignor Antonio Anastasio Rossi che nel maggio1910 aveva preso possesso dell’Arcidiocesi.
L’abbondanza di clero permise all’Autorità Diocesana di offrire un servizio pastorale in loco quasi ovunque in quanto la regione era caratterizzata da centri abitati sparsi lungo tutto il territorio.
Di questi 678 sacerdoti, 600 decisero spontaneamente di rimanere in Friuli accanto ai loro parrocchiani.
La vita di Cividale del Friuli, durante l’occupazione, è stata documentata dagli scritti di Monsignor Liva Valentino, il Decano del Capitolo cividalese. Egli restò vicino alla sua gente rimasta in città occupandosi di tutte le questioni burocratiche, amministrative e di assistenza.
Mons. Liva riporta in modo certosino, giornalmente, quanto accadde a Cividale fin dai primi giorni dell’esodo, dal 27 ottobre 1917 per un anno intero fino all’avvenuta Liberazione del 4 novembre 1918.
Nel 1928, i suoi scritti, vennero riportati in due volumi dai seguenti titoli La vita di un popolo e Anno di prigionia, stampati dalla Tipografia F.lli Stagni di Cividale del Friuli.
Dalle testimonianze di Mons. Liva si apprende che nella mattina del 27 ottobre 1917 si potevano contare cento persone a Cividale, compresi alcuni soldati del Genio Militare.
Singolare l’episodio accaduto presso il ponte che era stato fatto saltare dalle truppe italiane, cercando di rallentare, in questo modo, l’avanzata dell’esercito austro – tedesco.
I sacerdoti, sentiti dei lamenti, si avvicinarono e videro un giovane ufficiale ed un soldato che erano rimasti feriti durante il brillamento del ponte. L’Ufficiale era Gian Francesco Giorgi di Modena che, assieme al soldato, venne fatto ricoverare immediatamente in ospedale e che morì nei primi giorni di dicembre.
L’Ufficiale Giorgi venne insignito della Medaglia d’Argento alla memoria grazie alla relazione di Mons. Liva riguardo alla sua azione eroica.
Alla fine di ottobre a Mons. Liva, da Udine, giunse il decreto con il quale il Provicario Generale della Diocesi di Udine lo nominava Decano Provicario per la Circoscrizione di Cividale, di San Pietro al Natisone, di Corno di Rosazzo, di Nimis.
Il Decano diventò anche Sindaco di Cividale durante l’anno dell’occupazione.
Immediatamente egli si occupò di creare un comitato di assistenza per tutelare le persone rimaste; mediò sempre fra la popolazione ed il Comando militare straniero.
Nei primi giorni di novembre alcuni cividalesi ritornarono ed assieme a loro anche i soldati sbandati e fuggiti dai campi di concentramento.
Il Comandante della piazza, von Below, temette che alcuni residenti accogliessero i prigionieri evasi dai campi di prigionia ed emise dei bandi con cui minacciò di fucilazione chiunque accogliesse i fuggiaschi; stessa pena per chi era stato ospitato.
Mons. Liva ed i suoi confratelli diedero ospitalità, di nascosto, ai soldati per poi inviarli ai parroci di montagna[27].
La preoccupazione più grande di Mons. Liva fu quella degli approvvigionamenti per far in modo che fosse garantita la sopravvivenza ai cividalesi. Molte furono le richieste da lui inviate ai comandi degli occupanti ma non ricevette mai risposta. Per fronteggiare l’emergenza decise di creare il Consiglio Comunale presieduto da lui medesimo e nominando altre persone assessori e segretari. Nelle frazioni vennero nominati altrettanti capi.
La nuova amministrazione cercò di provvedere al necessario per i fabbisogni primari delle famiglie e di risolvere la tragica questione dei prigionieri: vicino a Cividale sorgevano diversi campi di concentramento.
Un’altra questione riguardava l’assistenza ai malati ed i feriti.
Già dal 31 ottobre, una piccola colonia di Orsoline, era partita per il seminario di Rubignacco, che era stato convertito in ospedale militare, per assistere e curare i soldati italiani lasciati abbandonati dai tedeschi.
Fin dai primi giorni dell’invasione, il Comando Germanico aveva manifestato l’intenzione di impadronirsi dell’Ospedale Civile.
L’Amministrazione non riuscì ad opporsi e così l’Ospedale Civile fu a disposizione dei feriti dell’esercito austro – ungarico e tedesco ed inoltre, divenne la sede della Direzione Generale di tutti gli Ospedali della città.
Nel frattempo tutti gli nosocomi militari di Cividale andarono svuotandosi dei feriti e dei malati a causa della distanza dal fronte.
Dai primi giorni dell’avvenuta occupazione, iniziarono le requisizioni che venivano attuate in ogni abitazione, rovinandole e saccheggiandole di ogni bene, di biancheria, di mobili, e portando via gli animali rimasti.
Dal 27 ottobre 1917 l’acquedotto Poiana non erogava più acqua né per Cividale e nemmeno agli altri Comuni facenti parte del Consorzio. Questo fu dovuto allo scoppio di una mina durante la ritirata che provocò lo schiacciamento del condotto vicino al luogo di presa ed alla rottura delle tubature.
La popolazione ebbe a disposizione solo l’acqua dei pozzi ma era rischiosa poiché vi era il grande pericolo delle epidemie ed inoltre non si poteva garantire il servizio di spegnimento d’incendi[28].
A Cividale funzionò un grande magazzino sin dal novembre 1917. Vennero distribuite delle derrate alimentari cercando di aiutare quanto più si poteva la popolazione.
In prossimità delle feste natalizie la situazione andò precipitando. I soldati giravano per le vie della cittadina ubriachi, terrorizzando e spaventando le persone; e molte volte compivano dei furti che diventarono sempre più frequenti.
Mons. Liva fece presente, di quanto stesse accadendo a Cividale, in molte missive di protesta inviate al Comando Austriaco con la preghiera che fossero a loro volta inoltrate al Comando Superiore.
Cividale alla fine del 1917 si trovò, così, in una situazione di completo isolamento, completamente sotto il dominio dell’esercito austro - ungarico e tedesco. La popolazione pur afflitta dalla crescente disperazione, nutriva un grande desiderio di ricevere della corrispondenza da coloro i quali erano fuggiti.
[1] Nave da guerra caratterizzata da elevata protezione, modesto pescaggio, modesta velocità, armata con cannoni di grosso calibro e destinata ad azioni costiere (cfr. Lo Zingarelli, Vocabolario della lingua Italiana, Bologna, Zanichelli)
[2] Cfr. www.homolaicus.com/storia/contemporanea/grandeguerra/isonzo.html
[3] Cfr. Del Bianco Giuseppe, op. citata, vol. II, 578.
[4] Cfr. AA.VV., Guida ai luoghi grande guerra. 3. Gli itinerari, pp. 138-139, Udine, Gaspari Editore, 2012.
[5] Cfr. Gaspari Paolo, Le termopili italiane: la battaglia di Cividale del 27 ottobre 1917, pg.12, Udine, Gaspari Editore, 2007.
[6] Ibidem, pg.13
[7] Cfr. Del Bianco Giuseppe, op.citata, vol. III pg.177.
[8] Dal sito www.lagrandeguerra.info/articoli.php?i=35
[9] Cfr. Gaspari Paolo, op. citata, pg.15.
[10] Ibidem, pg.14.
[11] Ibidem, pg.22-23.
[12] Ibidem, pg.25.
[13] Ibidem, pg.28.
[14] Cfr. Del Bianco Giuseppe, op. citata, vol. III, pg 177.
[15] Cfr. Gaspari Paolo, op. citata, pg.440.
[16] Ibidem, pg.39.
[17] Ibidem, pg.57.
[18] Ibidem, pg.61.
[19] Ibidem, pg.93-94.
[20] Ibidem, pg.109.
[21] Ibidem, pg.106.
[22] Cfr. Del Bianco Giuseppe, op. citata, vol. III, pg 183.
[23] Ibidem, pg. 184.
[24] Cfr. Bonassi, Fabi, Martina, Viola, Il Friuli del ‘15/’18, Udine, Provincia di Udine, 2003, pg.145.
[25] Cfr. Fabi Lucio, Viola Giacomo, Il Friuli nella Grande Guerra. Memorie, documenti, problemi, Ronchi dei Legionari, Edizioni del centro polivalente del monfalconese, Progetto Integrato Cultura Medio Friuli, 1996, pg. 48.
[26] Cfr. Stato personale e locale del Clero della Città ed Arcidiocesi di Udine per l’anno 1914, Udine, Stabilimento Tipografico S. Paolino, 1913, pp.169-185.
[27] Cfr. Baccino Bruno, op.citata, pg. 161-162.
[28] Cfr. Mattaloni Claudio, Grupignano. Storia, cronaca, e tradizioni di un borgo rurale friulano,Udine, Arti Grafiche Friulane,1989, pg. 112.